Recensione di Angelo Crespi
“La brillante durezza” è ovviamente quella del diamante che è il cristallo per eccellenza.
Composti da reticoli di atomi di carbonio disposti in forma di solito ottaedrica, i diamanti si sono aggregati nell’imo della terra, a profondità di oltre 100 chilometri dove operano pressioni altissime, e poi sono risaliti in superficie per effetto di eventi tellurici e vulcanici.
Non è solo la rarità e la finitezza a renderli inestimabili, ma la durezza assoluta che ne fa il minerale di origine naturale più duro che si conosca e ciò grazie ai legami covalenti che collegano in qualsiasi direzione qualunque coppia di atomi adiacenti.
Poi a contraddistinguerli c’è la clarity, ovvero la trasparenza e la purezza, che in latino potremmo tradurre claritas e in italiano chiarezza.
Il diamante, che è un cristallo ed è per sua essenza indomabile, o è addomesticabile solo attraverso un taglio frutto di una tecnica assoluta che ne fa un brillante, riassume tutte le caratteristiche che ci permettono di seguire il lavoro di Air Daryal e – si badi – non utilizzando un facile escamotage curatoriale, bensì perché la giovane artista ha dedicato la serie di tele in mostra al tema dei cristalli come si evince dai titoli, pensando alle qualità di questi minerali come la durezza, la freddezza (un tempo si pensava che fossero ghiaccio gelato, rappreso, e non più scioglibile), infine il grado di dispersione ottica, cioè l’elevata capacità di separare la luce bianca in uno spettro ampio di colori.
Per questo motivo “Splende attraverso la durezza” è la metafora che meglio esprime un’opera che si mostra d’incanto nella sua algida bellezza, al primo sguardo come se la trasparenza del cristallo ci permettesse di vedere in modo profetico oltre l’apparire delle cose, di vedere oltre le apparenze la verità delle cose.
Air Daryal, è una artista che è stata educata alla figurazione e che istintivamente si è poi indirizzata alla rappresentazione del paesaggio nel solco profondo di un certo naturalismo lombardo tardo ottocentesco, e che in seguito ha lavorato, foss’anche in modo inconsapevole, sulla materia così come i pittori del Novecento di queste terre che hanno amato impastare i loro panorami, spesso con aspirazioni espressioniste o del tachisme alla Morlotti o alla Birolli.
Nel caso di Air l’accelerazione è stata formidabile, un processo di svecchiamento e internazionalizzazione repente, bruciando le tappe quasi che l’età le avesse permesso di tracannare tutto l’international style in un solo sorso (da Ghenie, a Stingel, alla Saville), con il furore della giovinezza che non ama le mezze misure.
Ed è qui che ci soccorre l’excursus iniziale: miracolosamente le cose appaiono nel loro labile stare, dietro la superficie densa, le cose ancora si manifestano, traspaiono nella loro fragilità, resistono nella loro caducità: un albero, un natante, un meccanismo, una qualche architettura.
Un mondo che sta per disfarsi dietro cortine gelide eppure, come una profezia che si avvererà nel futuro, in grado di essere ancora, forse per poco prima di essere risucchiato dal lattiginoso biancore.
Tra i due poli, della trasparenza superficiale e della densa profondità, si gioca anche dal punto di vista concettuale e non solo estetico questa serie di nuovi lavori, di grandi dimensioni, che esprimono una maturità raggiunta ad ampie falcate.
Air preferisce una tavolozza del tutto personale, dove predominano i chiari sporchi, i bianchi e gli azzurri, i grigi lividi e i rosati, che in qualche modo richiama un certo chiarismo lombardo primonovecentesco, alla Adriano Spilimbergo per dire, ma disgregato e senza nessuna affettazione o lirismo, mentre non ha paragoni con i suoi coetanei impegnati su altre tonalità, spesso più cupe.